Compiti a casa sì o no? Ogni occasione è buona per riaprire il dibattito sull’utilità del lavoro a casa.
Evidentemente i compiti non sono un problema solo per chi deve farli. Si interrogano sulla loro utilità e quantità le istituzioni, i genitori, gli insegnanti, i pedagogisti. Quasi tutti d’accordo sulla necessità di non caricare troppo i ragazzi di lavoro extrascolastico commisurandolo con l’età e le ore passate in classe.
Già negli anni trenta, John Dewey pedagogista e filosofo contestava la pratica dei compiti a casa che giudicava “un’invasione della vita familiare che priva i bambini del gioco e del tempo libero, fondamentali per la crescita” e studi ormai classici su questo tema sono numerosi.
Lo studioso che più assiduamente e sistematicamente si è dedicato alla ricerca su questo tema è Harris Cooper, professore di Psicologia alla Duke University, il cui libro: “The Battle Over Homework” (2007) ha avuto grande risonanza non solo nel mondo accademico.
Lo studio di Cooper muove dall'ipotesi che l'assegnazione dei compiti a casa sia frutto di un mero atto di fede “pedagogica”, visto che nessuno può dire se questo tipo di impegno sia davvero proficuo, nessuno ne ha mai verificato gli effetti: non vi è prova alcuna che i compiti a casa, di qualunque entità e qualità, migliorino le prestazioni scolastiche.
L'autore ha compiuto 120 studi nel 1989 e altri 60 studi nel 2006: una mole impressionante di dati dai quali non risulta alcuna prova di un qualche beneficio per l’apprendimento scolastico, mentre emerge con chiarezza l’impatto negativo dei compiti sull'atteggiamento dei bambini verso la scuola.
Ad auspicare una vita scolastica senza pomeriggi chini sui libri in Italia è Maurizio Parodi, dirigente scolastico e pedagogista, autore del suo “Basta Compiti, non è così che si impara” del 2012.
La funzione dei compiti è legata al lavoro che si fa a scuola. Per avere la massima efficacia devono avere un feedback da parte degli insegnanti (che purtroppo non sempre li guardano). Così non solo viene riconosciuto un valore all’impegno richiesto, ma gli insegnanti hanno anche modo di verificare eventuali difficoltà.
I compiti non devono necessariamente “piacere” però gli studenti devono capire bene a che cosa servono. Per esempio, leggere a casa tutti i giorni in prima elementare serve ad automatizzare il processo di lettura. E così per le tabelline in seconda. Altro “compito dei compiti” è che permettono di fare collegamenti, favoriscono l’apertura mentale, stimolano curiosità e attenzione (per es. con ricerche e approfondimenti), consolidano il metodo di studio e l’autonomia. In generale, i compiti dovrebbero riprendere l’attività svolta in classe con una sfida in più, affinché vengano messe in atto più capacità e stimolato l’interesse.
Alle medie e alle superiori i ragazzi sono chiamati anche a studiare da soli e memorizzare: questo è un lavoro che ha senso se i docenti hanno insegnato un metodo di studio (l’uso delle mappe, le sottolineature, gli schemi, le linee del tempo...), altrimenti diventa un esercizio di memoria e le nozioni apprese si perdono facilmente. È quello che succede quando si studia solo per la prestazione. Si chiama apprendimento difensivo e avviene quando lo studente punta a rispondere semplicemente alle prestazioni richieste dalla scuola: studia per superare una verifica, ma non impara niente. Le nozioni memorizzate in questo modo hanno vita brevissima, si rende perciò necessaria l'esposizione continua all'esercizio: proprio l'inefficacia del compito ne determina l'incremento. Si tratta di una procedura fondamentale in una scuola trasmissiva e nozionistica. Non si capisce o riconosce che per poter apprendere efficacemente è necessario avere tempi di assimilazione, recupero, riposo e divagazione. Le informazioni ben elaborate restano e si apprendono molto velocemente.
Alle primarie quasi tutto il lavoro viene svolto in classe, dove le maestre indirizzano anche sul metodo di studio. A casa i bambini non devono studiare ma recuperare il lavoro svolto e sistematizzarlo. Spesso i genitori non hanno chiare le aspettative degli insegnanti e pretendono dai piccoli prestazioni che la maestra non intendeva richiedere. Ci vuole più fiducia dei genitori sia negli insegnanti sia nei bambini. Moltissimi genitori (ancorati a una scuola del passato) considerano la quantità di compiti un indicatore di serietà del docente: li chiedono, anzi li pretendono.
Anche se per un compito “ideale” l’80% del lavoro a casa dovrebbe poter essere svolto in autonomia fin dalla prima elementare, la famiglia fa la differenza. Talvolta, i genitori non sono in grado di supportare il lavoro dei figli. E non sempre quello che è indicato per un ragazzo va bene per un altro. Un compito troppo facile può far perdere la fiducia nel senso del lavoro, uno troppo difficile rischia di incrinare l’autostima del ragazzo. Dare compiti, è il caso di dirlo, è un compito molto delicato e non vuol dire che vada completamente abolito.
I compiti sono uguali per tutti. Ma non tutti gli studenti sono allo stesso livello e ognuno ha il suo modo di imparare: per qualcuno farli è semplice, altri devono impegnarsi molto di più, troppi non riescono. Inoltre risultano avvantaggiati gli scolari che possono contare sul sostegno della famiglia.
La scuola ignora gli stili cognitivi dei ragazzi. Ogni persona usa strategie ed espedienti mentali per affrontare determinati compiti. Gli insegnanti per lo più ignorano il modo con cui i loro allievi apprendono e le loro potenzialità; pretendono riflessione, attenzione, memoria senza indicare i “gesti mentali” da compiere. Talvolta basterebbe che i ragazzi confrontassero fra loro le rispettive strategie per superare le difficoltà di chi non riesce. Se si chiedesse allo scolaro che meglio ha risolto un problema, ostico per altri, di spiegare ai compagni come è arrivato alla soluzione, la volta dopo tutti avrebbero uno strumento in più. È il principio del mutuo insegnamento, ma la didattica cooperativa (cooperative learning) è assente nella scuola.
L’apparato scolastico funziona per postulati non dichiarati: più si ascolta più si apprende (e invece i ragazzi hanno una capacità di ascolto molto limitata); a scuola si insegna, a casa si impara (ma l’apprendimento deve avvenire in classe). Tutto insomma procede sui soliti binari, secondo riti e tradizioni obsolete. Si pensi al “tema”, la forma di scrittura più utilizzata e, tra l’altro, bandita già dai programmi dal 1985. Per un ragazzo svolgere un tema significa scrivere per forza, sapendo che tutto ciò che scrive potrà essere usato contro di lui. Per non parlare della lettura: che piacere può scaturire da un libro letto per dovere, sezionato con accanimento?
Inoltre la scuola continua a promuovere le abilità cognitive più basse (la memorizzazione di contenuti da ripetere a comando) ignorando le strategie cognitive più evolute come il problem solving o il pensiero divergente. La selezione per merito privilegia chi ricorda meglio. Ma si tratta di memoria a breve termine, utile ai fini di un’interrogazione. Poi non resta nulla!
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